L’angelo del male – Brightburn

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L’angelo del male – Brightburn dell’esordiente David Yarovesky, sfrutta la fiducia che trasmettono alcuni temi positivi, come la famiglia e i super eroi dei comicmovies, per scatenare una reazione di insicurezza nello spettatore, sensazione perfetta per il genere horror. L’idea è interessante. Proprio il genere horror ci ha mostrato, negli ultimi anni, come la rielaborazione del contesto familiare possa provocare sviluppi affascinanti. Mi tornano in mente Hereditary di Ari Aster e The Witch di Robert Eggers.
Un soggetto interessante
Brightburn (nome della località in cui si svolge la storia, che forse riprende Roswell; il sottotitolo italiano è fuori luogo) comincia mentre una coppia tenta invano di avere un bambino, finché questo non gli cade dal cielo. Letteralmente, a bordo di un’astronave. Non è che “Un essere trovato nel bosco“, tuttavia la coppia, totalmente incosciente, lo tiene e lo alleva come se fosse figlio loro. Finché Brandon (un inquietante Jackson A. Dunn) non compie dodici anni e scopre di avere dei super poteri. E una leggerissima vocazione alla violenza.
La trama sembra un’alterazione, in chiave ostile, della storia di Superman: cosa accadrebbe se il suo carattere alieno fosse privo di ogni forma d’umanità? A questo punto, Brightburn fa un collegamento brillante, poiché unisce la totale assenza di empatia (aliena) di Brandon con l’inizio dell’adolescenza, ovvero quando i genitori affrontano i cambiamenti caratteriali dei propri figli. Con queste premesse interessanti, peccato che la scrittura di Brightburn sia insoddisfacente.
I numerosi problemi della sceneggiatura
Sin da subito, Brightburn palesa una certa superficialità nella sceneggiatura, la quale screpola l’intero sviluppo sia della trama che dei personaggi, rovinando fatalmente tutte le premesse intriganti del soggetto. La scrittura azzera la memoria dei personaggi pur di riavviare la tensione scena spaventosa dopo scena. Un (non) espediente imbarazzante. I genitori di Brandon sono stupidi: ignorano una serie di indizi gravissimi da una scena a un’altra pur di far avanzare la trama.
Quando in piena notte la mamma trova Brandon nel fienile, ovvero dove loro hanno nascosto la sua astronave, giustifica la stranezza come un attacco di sonnambulismo. Così, dal nulla, il figlio è diventato sonnambulo (anzi, “Crede” che sia stato sonnambulismo, giusto per essere più pressapochista). La mamma a un certo punto afferma: “Non potrei mai mettermi contro nostro figlio“, il problema è che queste banalità sono numerose, quindi diventa impossibile giustificarle tutte con l’atteggiamento genitoriale che discolpa i figli da ogni condotta pericolosa, come invece potremmo fare con l’episodio della mano. Brandon nasconde fotografie di interiora insieme a materiale erotico e la mamma (una persona adulta) pensa che sia “Roba da maschi“; il padre ignora completamente la scena della forchetta; la mamma pensa che la felpa insanguinata “Potrebbe essere di chiunque“. Sono stupidi.
La regia
Yarovesky, invece, punta su una regia costruita sui movimenti di macchina: oltre all’immancabile camera a mano, i movimenti sul carrello sono numerosi e piacevoli. Tuttavia, la sua idea di horror è abbastanza classica: controcampo, e il soggetto orrorifico sparisce – controcampo, e il soggetto riappare. Notevole la scena spaventosa girata in soggettiva, con metà dell’inquadratura coperta di sangue. Proprio l’elemento del sangue sembra importante per Brightburn, poiché lo ritroviamo spesso: Brandon non sanguina, mentre in una scena specifica è sedotto dal sangue. Nell’incubo, la mamma lo allatta e piange sangue. Tuttavia, non c’è alcun tipo di approfondimento riguardo questo aspetto. Il resto delle scene spaventose, invece, sono prevedibili, se non per una presenza di effetti splatter pregevoli.
A proposito di effetti splatter, nella versione italiana L’angelo del male – Brightburn è stato censurato nelle due scene più violente. Una la potete trovare su YouTube a questo indirizzo. Ovviamente è una scena che contiene spoiler.
One Response to “L’angelo del male – Brightburn”
[…] Blue my mind (ignoro ancora una volta il sottotitolo italiano) camuffa, nemmeno troppo efficacemente, il processo di Mia nel diventare una donna con l’analogia della sua trasformazione in qualcosa. In cosa lo si capisce chiaramente (alcuni articoli lo hanno persino annunciato nel titolo), ma non importa: perché Brühlmann basa il proprio film sulla similitudine delle trasformazioni, interpretando alla lettera i cambiamenti che avvengono durante la crescita. Un po’ come accade in Brightburn. […]